" Mi hanno tolto mio figlio. Finché mi avevano tolto mio marito, non avevo detto niente, ma mio figlio è sangue mio, e io devo reagire." (Serafina Battaglia)
(30 Gennaio1962) Palermo. Serafina Battaglia è la prima donna ad
infrangere il muro dell’omertà’ mafiosa. E lo fa per vendicare l’assassinio del
figlio Salvatore. In tribunale rivela tutto quello che sa, indicando i nomi di
assassini, mandanti ed esecutori. Da quel momento diventa testimone implacabile
in molti processi.
Serafina testimoniò per
amore materno, e raccontò la dinamica dell’omicidio anche del marito, Stefano
Leale, per il quale erano imputati Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo
Barbaccia. Uno dei tanti episodi della guerra fra clan che presto avrebbe
insanguinato le strade di Palermo. Aveva meditato proprio con il figlio di 21
anni la vendetta, ma l’attentato era fallito e la vendetta giunse
presto: Salvatore “Totuccio” venne assassinato come suo padre, nel
1962. La morte del figlio è ciò che fa scattare un violento cambio di
ruolo: Serafina, donna cresciuta all’interno della mafia e abituata a
conviverci, decide di dare il suo contributo alla giustizia.
L’ordine per l’esecuzione
del marito – a Godrano, piccolo paese siciliano – era arrivato dalla
famiglia Rimi, quegli stessi mafiosi che trascorrevano i pomeriggi nella
sua bottega di caffè, a discutere la spartizione del potere in quella zona
dell’isola. Il sociologo Pino Arlacchi scrisse che Vincenzo Rimi era “considerato
come il leader morale di tutta Cosa Nostra siciliana degli anni Cinquanta e
Sessanta”
La Battaglia disse di portare sempre con sé la pistola: «La tengo
per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia». Tuttavia fu una
sostenitrice della giustizia pubblica e dell'importanza della testimonianza:
«Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di
Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano, perciò li conosco uno ad uno. So
quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi
confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si
decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per
sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo.» Nella
sua battaglia, venne appoggiata solo dal giornalista de Il Giornale di Sicilia Mario
Francese, assassinato nel gennaio del 1979, e dal giudice Cesare Terranova,
anch’egli ucciso dalla mafia il settembre dello stesso anno.
Serafina fu una madre che, per amore del proprio figlio, cominciò una
difficile battaglia anche per il tempo in cui fu combattuta. Sfidò le regole di
una società omertosa, ruppe gli schemi predefiniti sul ruolo della donna nella
società del profondo sud. Fu quindi la prima a schierarsi contro lo strapotere
della mafia, la sua ragnatela, le sue coperture.
Tuttavia Serafina non ebbe mai giustizia. Dopo fasi alterne il
dibattimento portò il 13 febbraio 1979 all’assoluzione dei Rimi per
insufficienza di prove. Nonostante per anni non riuscisse a trovare alcun
avvocato disposto a difenderla, poté testimoniare in tutta Italia: parlò di
oltre venti omicidi, raccontò l’organizzazione delle cosche locali, descrisse
il modo con cui si svolgevano i traffici illeciti fra le famiglie delle quali
le aveva parlato il marito. Il processo si svolge a Perugia, la stampa la
ribattezza “La vedova della lupara”: le cronache raccontano di lei che mostra
in aula un fazzoletto sporcato dal sangue del figlio, degli sputi agli imputati
e di quando si inginocchiò davanti ai giudici.
Dopo l’assoluzione degli imputati Serafina non uscì più di casa:
accusata di essere “pazza” dai parenti, pare dormisse con una pistola P38
per paura di essere ammazzata. Muore il 10 settembre del 2004, a 84 anni,
quasi dimenticata nell’appartamento nei pressi del quartiere Olivuzza, a
pochi passi dal palazzo di Giustizia di Palermo.
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