domenica 30 gennaio 2022

Serafina Battaglia: la donna che si ribellò alla mafia


 " Mi hanno tolto mio figlio. Finché mi avevano tolto mio marito, non avevo detto niente, ma mio figlio è sangue mio, e io devo reagire." (Serafina Battaglia)

 

(30 Gennaio1962) Palermo. Serafina Battaglia è la prima donna ad infrangere il muro dell’omertà’ mafiosa. E lo fa per vendicare l’assassinio del figlio Salvatore. In tribunale rivela tutto quello che sa, indicando i nomi di assassini, mandanti ed esecutori. Da quel momento diventa testimone implacabile in molti processi.

 

Serafina testimoniò per amore materno, e raccontò la dinamica dell’omicidio anche del marito, Stefano Leale, per il quale erano imputati Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia. Uno dei tanti episodi della guerra fra clan che presto avrebbe insanguinato le strade di Palermo. Aveva meditato proprio con il figlio di 21 anni la vendetta, ma l’attentato era fallito e la vendetta giunse presto: Salvatore “Totuccio” venne assassinato come suo padre, nel 1962. La morte del figlio è ciò che fa scattare un violento cambio di ruolo: Serafina, donna cresciuta all’interno della mafia e abituata a conviverci, decide di dare il suo contributo alla giustizia.

 

L’ordine per l’esecuzione del marito – a Godrano, piccolo paese siciliano – era arrivato dalla famiglia Rimi, quegli stessi mafiosi che trascorrevano i pomeriggi nella sua bottega di caffè, a discutere la spartizione del potere in quella zona dell’isola. Il sociologo Pino Arlacchi scrisse che Vincenzo Rimi era “considerato come il leader morale di tutta Cosa Nostra siciliana degli anni Cinquanta e Sessanta”

 

La Battaglia disse di portare sempre con sé la pistola: «La tengo per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia». Tuttavia fu una sostenitrice della giustizia pubblica e dell'importanza della testimonianza: «Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano, perciò li conosco uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo.» Nella sua battaglia, venne appoggiata solo dal giornalista de Il Giornale di Sicilia Mario Francese, assassinato nel gennaio del 1979, e dal giudice Cesare Terranova, anch’egli ucciso dalla mafia il settembre dello stesso anno.

 

Serafina fu una madre che, per amore del proprio figlio, cominciò una difficile battaglia anche per il tempo in cui fu combattuta. Sfidò le regole di una società omertosa, ruppe gli schemi predefiniti sul ruolo della donna nella società del profondo sud. Fu quindi la prima a schierarsi contro lo strapotere della mafia, la sua ragnatela, le sue coperture.

 

Tuttavia Serafina non ebbe mai giustizia. Dopo fasi alterne il dibattimento portò il 13 febbraio 1979 all’assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Nonostante per anni non riuscisse a trovare alcun avvocato disposto a difenderla, poté testimoniare in tutta Italia: parlò di oltre venti omicidi, raccontò l’organizzazione delle cosche locali, descrisse il modo con cui si svolgevano i traffici illeciti fra le famiglie delle quali le aveva parlato il marito. Il processo si svolge a Perugia, la stampa la ribattezza “La vedova della lupara”: le cronache raccontano di lei che mostra in aula un fazzoletto sporcato dal sangue del figlio, degli sputi agli imputati e di quando si inginocchiò davanti ai giudici.

 

Dopo l’assoluzione degli imputati Serafina non uscì più di casa: accusata di essere “pazza” dai parenti, pare dormisse con una pistola P38 per paura di essere ammazzata. Muore il 10 settembre del 2004, a 84 anni, quasi dimenticata nell’appartamento nei pressi del quartiere Olivuzza, a pochi passi dal palazzo di Giustizia di Palermo.

 

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